martedì 30 aprile 2013

1° maggio



In una giornata come questa, in cui si festeggiano i lavoratori,
tutti i lavoratori, dall’imprenditore all’apprendista,
passando per tutte le categorie che ci stanno in mezzo,
vorrei ricordare quelli che per il lavoro sono morti o invalidati.
Oggi, come negli anni passati, il mio pensiero va a Quinto e a Martina,
nomi che certamente non vi diranno niente ma che rappresentano chi,
di vostra conoscenza sia caduto lavorando.
Se vogliamo che il nostro Paese sia quello in cui sogniamo di vivere
e far vivere i nostri figli, dobbiamo sollevarci contro questo assassinio
continuo, volontario e quasi sempre impunito, perpetrato da chi,
per mero guadagno, manda a morire lavoratori il più delle volte sottopagati.
Se oggi sono morti tre lavoratori, la media ci dice che domani ne moriranno almeno quattro e in questo tragico conteggio non sono comprese le migliaia di lavoratori
che muoiono per esalazioni o contatto con materiali nocivi.
  Le emissioni che a Marghera, a Taranto, a Brindisi, a Genova
  o intorno alle miniere di amianto del Piemonte, falcidiano decine di vittime
  e mettono sul lastrico molte famiglie non credo che siano responsabilità dei lavoratori perché non mettono una mascherina, sono invece causa
  della sfrenata corsa a produrre beni che arricchiscono chi inquina
  causando malati sui quali, magari, qualche medico di fama
  riesce perfino a speculare come avvoltoio che si avventa su un corpo in decomposizione.
  Su questo fronte la battaglia diventa guerra ed è particolarmente dura
  perché gli interessi sono altissimi (e i costi per la società ancora di più)
e spesso sulle morti bianche di questo tipo cade un silenzio “tombale”.
Questo prezzo è troppo alto, non si può continuare a pagare così tanto
per mantenere le nostre famiglie.
In un panorama come questo le organizzazioni degli industriali,
organi a mio avviso tra i più responsabili di questa drammatica situazione,
chiedono ancora una volta sovvenzioni e agevolazioni
senza che si vedano risultati sul fronte della sicurezza sul lavoro.
Loro chiedono soldi per vivere nell’agiatezza,
noi siamo ancora lì a chiedere sicurezza per campare con un minimo di dignità.

Per la cronaca:
Quinto è morto d’infarto sul posto di lavoro, se avessimo avuto
un defibrillatore e del personale addestrato lui,
che ha visto l’inizio della mia vita lavorativa
e mi ha tirato su con l’affetto di un padre sarebbe ancora qui.
Martina è venuta in fabbrica a 14 anni e mentre lavava una incollatrice
ha infilato una mano tra i rulli che gliel’hanno schiacciata a 18 millimetri
fino al tutto l’avambraccio, dopo infinite operazioni ha ripreso in parte le funzioni
ma ha imparato a mangiare e a lavorare con la mancina,
scrivere credo che sia ancora difficile, 
 ma cosa importa? A un operaio a cosa gli serve scrivere!


mercoledì 24 aprile 2013

25 aprile



Ormai siamo abituati a far festa e abbiamo cominciato a chiamarlo
“ponte del 25 Aprile” come se non fosse una ricorrenza importante,
e invece credo che sia uno dei giorni cardine della nostra Repubblica.
Ci sono voluti centocinquant’anni per garantire quella libertà
e quella unità nazionale di cui oggi possiamo godere;
dai primi moti del ’48 alla proclamazione della Repubblica,
cento anni che uniscono con un filo rosso le anime del Risorgimento
alla lotta di liberazione Partigiana.

Vedo che da qualche anno (mi pare dal ‘94) c’è molta ostinazione nel non festeggiare il 25 Aprile,
forse a questa data è stato attribuito un valore di parte e questo porta a valutarla
come una festa partigiana nel senso “dei Partigiani”.
A quasi settant’anni dalla fine della guerra credo che si possa ormai dire che
il 25 Aprile può ben rappresentare la fine di una oppressione,
e dunque anche la contrarietà a tutte le oppressioni
e dunque anche la festa della libertà dei popoli.
Pensare che in questa giornata si festeggi solo la lotta partigiana, mi pare riduttivo,
oltre alla lotta per la liberazione, vedo il movimento partigiano
come l’unione di tanta gente del tutto diversa
sulla comune necessità di difesa dei propri diritti. 
Probabilmente c’è stata una egoistica leggerezza da parte della sinistra
nel credere (e nel far credere) che questa fosse una festa di parte,
nel mettere in secondo piano quel valore aggregante che oggi leggo in questa ricorrenza
e, allo stesso modo, credo sbagliato l’atteggiamento di chi disconosce questi valori 
e non partecipi e anzi derida chi festeggia il 25 Aprile.
E’ anche in questa distinta idealità che riconosco l’essere diverso di chi è di sinistra.

Con queste due righe vorrei ricordare insieme a voi
quella miriade di Eroi spesso sconosciuti
che hanno sacrificato la loro vita
per dare a noi un oggi sereno.

lunedì 22 aprile 2013

Esame patente



“Tocca a lei, forza venga al timone chiuda la bussola e vada dritto”
“(Fortuna che ci sono le nasse così mi oriento un po’)”
“Intanto mi dica su che barca siamo”
Mi rivolgo al padrone della barca e gli chiedo che barca è
E poi rispondo  “Uno show 38”
“Che tipo di barca, voglio sapere il tipo di barca su cui siamo”
“Sloop Marconi”
“Su che andatura stiamo andando?”
“Bolina mure a si…dritta”
“Allora adesso mi vada di bolina mure a dritta”
(Ma dove cazzo vuole andare sto stronzo) Ci siamo già”
“Allora vada di poppa mure a sinistra”
“Pronti a virare!”
Mi risponde un coro di pronti e anche uno da sottocoperta dice “pronto”
“No!, senza virare”
“Buoni che fra un po’ strambiamo”
“No, non è strambare”
“…E come faccio allora”
“Mi faccia una virata di poppa!”
“…Non è uguale?”
“Il risultato è lo stesso ma ci sono delle piccole differenze che lei dovrebbe sapere”
“(anche se ti spari o t’impicchi il risultato è lo stesso con piccole differenze che manco t’accorgi)”
“Mi dica che vele abbiamo e come si chiamano”
“Le vele sono in dacron e abbiamo issato una randa e un fiocco avvolgibile”
“Come si chiamano tutte le parti delle vele?”
E così comincio a parlare del punto di mura, di scotta e di penna con la tavoletta,
della caduta prodiera della base e della balumìna, dei terzaroli, dei matafioni e delle brancarelle, tutto, mi mancava di dirgli solo chi le ha fatte.
“C’è un errore”
“…( e ti pareva)“
“Balùmina, si dice balùmina e non come la chiama lei balumìna. 
Allora adesso invece dell’uomo a mare facciamo la presa di gavitello,
faccia conto che quella nassa laggiù sia il gavitello”
Orzo un po’, ora sono di bolina e mi avvicino
“Sventa il fiocco...  sventa la randa”,
“Scusi signor tenente le dispiace spostarsi un po’ che ha lo strozzatore sotto una gamba?”
“Non sono tenente io!”
“Abbia pazienza, mi hanno detto che è tenente, non conosco i gradi “
“E invece dovrebbe”
E intanto il gavitello (nassa) passa strisciando la fiancata
(dovrei dire l’opera morta che se mi legge mi viene a prendere la patente dalla tasca)…
Io lo guardo passare, lui lo stesso
mentre la barca va con la randa in bando
“Cazza la randa! Facciamo un giro e se abbiamo culo tiriamo su una nassa con le seppie dentro”
Finiamo il giro con Matteo e Rico alle manovre,
ormai ci conosciamo bene e sappiamo cosa fare
ci ripresentiamo davanti alla nassa e faccio sventare le vele,
anzi, sventano da soli prima che glielo dica io
finché Lucio non prende la nassa per il bastone della bandierina e urla
“Presa!”
“Mollala coglione che ti sega una mano”
Non so chi l’ha detto,
ma se la nassa è grossa e pesante
c’è pericolo davvero che si faccia male.


“In caso di rotta di collisione chi ha la precedenza su quella barca?”
A circa duecento metri ci sono due barche a vela e una a motore
“Hanno precedenza loro perché noi abbiamo mura a sinistra”
“E’ sicuro? …Su quella barca?”
Intanto il motoscafo si avvicina planando
“No, volevo dire che su quella a motore abbiamo precedenza noi, ma sulle altre a vela no”

“Le pare che le vele siano a posto?”
“No, dovrebbero essere più cazzate”
“Come fa a saperlo”
“I filetti sono troppo bassi”
“Non siamo dal macellaio, cosa vuol dire con  “i filetti””
“I segnavento delle vele, i tall tales”
“Allora, lasciando la vela così, manovri la barca in modo da far andare bene il fiocco”
Comincio a poggiare finché il fiocco non fileggia e poi orzo un po’
“Adesso metta a posto la randa”
La randa sta fileggiando e allora chiedo a Matteo di cazzarla.
Lui lo fa lentamente e io guardo su per stopparlo quando va bene e al momento giusto lo fermo,
però senza accorgermi, mentre sistemo la randa poggio un po’ e il fiocco fileggia,
lui se ne accorge e mi guarda, ma prima che dica qualcosa urlo al mio compagno:
“ Rico (Enrico), cazza quel fiocco sennò sto cazzo di commedia va avanti fino a notte!”
Non me ne frega niente di come andrà,
ma a subire le angherie di sto stronzo in divisa non ce la faccio più.

“Può andare, chi è il prossimo?”
“Grazie (cadessi in acqua in un giorno di gennaio e appena salvato prendessi una bomata da rimenerci secco!)
Quaranta minuti di esame, ho la schiuma alle ascelle come un cavallo da corsa,
allaccio il giubbino perché adesso comincio a sentire l’aria che punge.
Un compagno vuole che gli dia il cambio alle scotte e gli dico di no: “Manco se mi ci leghi”
Due ore dopo scendiamo in banchina e lui si complimenta con l’istruttore
“Bravi, tutti promossi, la patente però ve la do fra quindici giorni perché adesso vado in ferie. Arrivederci”
“(Speriamo di no, bastardo)”

domenica 7 aprile 2013

La casa bombardata



La linea Gotica era passata per il paese con i danni che aveva fatto dappertutto:
era stata bombardata la stazione, il ponte della ferrovia e una fabbrica,
l’unica che c’era e che meritasse questo nome,
tanto che ancora i vecchi chiamano “la fabbrica” il posto dov’era.
La guerra era finita da una decina d’anni e noi eravamo cresciuti
nel quartiere di Guazza, tutti insieme intorno alla casa bombardata,
una casa in via Fonte del Duomo della quale era crollata la parete laterale, portandosi dietro anche parte dei pavimenti.
Tutto quello che poteva essere riutilizzato era stato portato via.
Rimaneva soltanto un mucchio di calcinacci inservibili
che lentamente si sparpagliava nello slargo che si era formato.
Quello era il nostro posto, lì c’era la pista per le palline,
la parete per il battimuro, il gioco delle figurine e dei tappi a corona.
Le palline si compravano dalla Dele d’ Blich long
(termine che per pudicizia è meglio non tradurre).
La  Dele (Adele) aveva un negozio di fili e bottoni proprio davanti alla casa bombardata e i pochi spiccioli che si riuscivano a racimolare
bastavano per comprare sempre meno palline,
il cui prezzo variava  secondo le simpatie e secondo un’inflazione
che non riuscivamo ancora a capire.
Essendo nonna Gemma una rinomata sarta ero privilegiato sul prezzo
e quindi compravo spesso le palline per la comunità.
A dire il vero non ne avevo un gran bisogno per me
in quanto una innata abilità professionale
mi portava a vincere le palline degli altri.
In ogni caso il prezzo ufficiale era di dieci lire per tre palline
mentre al libero mercato, per la stessa cifra,
 se ne potevano comprare quattro o cinque.
Mi pare doveroso ricordare che le palline (mai usato il termine “biglia”)
erano di coccio dunque di approssimativa rotondità e dimensione.
Uno dei giochi era pressappoco come le bocce, la differenza stava nel fatto
che le palline dovevano essere tirate da una riga posta a sette passi dal pallino.
Altro gioco era il pancotto
che si giocava mandando le palline in una serie di buche.
Quando dopo qualche anno scoprii l’esistenza del golf,
pensai che gli americani lo avessero copiato da noi
e forse è nata li la mia avversione a tutto ciò che si fa o si dice in quel Paese.
Il gioco più frequente era il filotto: le palline venivano messe in una fila,
 posta verticalmente alla linea di tiro, fatta la conta si tirava
e la più lontana che veniva colpita era vinta insieme a tutte le precedenti.
Le tecniche di tiro erano diverse e ad ognuna veniva dato un nome,
oppure prendeva il nome di chi l’adottava coi risultati migliori.
Attilio, nel suo libro Palline miseria chitarre e speranza
(dal vicolo all’asfalto) ne descrive alcune molto bene  di quelle in uso in città

“C’era dunque il modo di Luciano, il bricoccolo e anche il tiro del cesso,
che consisteva nel colpire la pallina stando accovacciati.
Il colpo alla pallina poteva essere dato con l’indice
che scattava da sotto la falange del pollice
oppure dal pollice che scattava da sotto la prima falange dell’indice.
Il primo sviluppava certamente maggior potenza,
tanto che poteva succedere che le palline scontrandosi si spaccassero.
Il secondo, sebbene meno potente, era sicuramente più elegante
e le tre dita non usate, tenute sollevate davano ancora più eleganza al gesto”.

Quando comparvero le prime palline di vetro non ebbero un gran successo,
perché eravamo più attirati dalle palline di plastica con la figurina dei ciclisti all’interno.
La grande dimensione e il basso peso di queste prevedeva giochi di tipo diverso
e così cominciammo a costruire piste per far correre le nuove palline.
La pista era scavata tra i calcinacci e il terreno
ed era rigorosamente vietato pulirla prima del tiro
fatta eccezione dell’unanime consenso per sopravvenuto crollo di una soprelevata.
Altro gioco (sono fermamente convito della unicità dell’invenzione)
era il cannoncino Formitrol. che consisteva nel mettere acqua in un tubetto di alluminio
di Formitrol (medicinale per il mal di gola) e tapparlo con un sughero.
Il tubetto si appoggiava su un focherello improvvisato,
 in modo che all’ebollizione dell’acqua il tappo saltasse via.
I tappi venivano sagomati e provvisti di alette,
lavorati in vari modi sempre più sofisticati:
Non conoscevamo Von Braun, ma se ce ne avessero parlato,
avremmo concluso all’unanimità che aveva copiato da noi.
Vinceva ovviamente chi faceva andare il tappo più lontano.
Di quel periodo ricordo bene il mastello
che mamma metteva la mattina fuori dell’uscio e che serviva la sera a farmi il bagno.
Ero ormai abituato ad aspettare in mutande fuori di casa
e a chiamare mia madre quando ero già a mollo.
Lei arrivava e, ancor prima di lavarmi, mi assestava un brettone
(scappellotto dato sulla nuca, dove batte il berretto)
Non ne ho mai capito la motivazione, ma non mi sono mai opposto,
credendo che, più che per punirmi, lo facesse per propria soddisfazione
e dunque lo prendevo come fosse una missione per far felice mia madre,  
in fondo il manico della scopa era molto peggio.
Ne ho presi talmente tanti che ho ormai la certezza
che la mia artrosi cervicale dipenda da quelli.
Il trascorrere del tempo ci portava ad occupazioni di tipo diverso
facendoci abbandonare i vecchi passatempi per nuove attività.
Arrivò dunque il periodo delle guerre tra quartieri che,
se dapprima erano solo scaramucce, si trasformarono ben presto
in furiose sassaiole, con teste bucate da sconosciuti e botte prese dai familiari.
Nella nostra casa bombardata tutti i giorni ci si allenava alla battaglia con le cerbottane,
e, quando veniva colpito qualcuno, il tiratore urlava:“Morto!”
e il colpito ribatteva: “No, m’hai preso di striscio”.
Ovviamente si rimetteva il responso nelle mani di una giuria,
che giudicava tenendo in gran conto la simpatia e il carisma dei coinvolti. Ricordo una volta che Silvano Mezz’ett (mezzo etto per via della magrezza),
rincorrendo qualcuno, cadde con la cerbottana in bocca e si ferì-
Il sangue usciva dalle labbra anche se le mani stavano serrate sulla bocca,
la quantità di sangue e l’espressione di sofferenza ci fecero credere
che ormai non c’era più niente da fare tanto che quando qualcuno disse
“un eroe muore da solo” ce ne andammo tutti a testa bassa e in silenzio lasciandolo lì.
Non mi ricordo come andò a finire ma Silvano, l’eroe, ancora ce lo rinfaccia.

Era in quel periodo che io e il Bocciolo cominciammo a frequentare
il greto del fiume, al confine dei campi di tabacco di Veleno
e il campo di erba medica di Bartoccioni, suo nonno,
costruendo capanne con malta, sassi e frasche, manifestando una vocazione che ci portò fino all’università in un tentativo che prevedeva
lui ingegnere ed io architetto e che si risolse con lui geometra ed io a far mobili.
A quel tempo, la società elettrica cambiava i pali della luce di legno con quelli in cemento
e i nostri avversari di Pian del Vescovo avevano costruito una zattera
con parte dei vecchi pali.
Il Gran Consiglio di Guazza incaricò me a il Bocciolo, i più acquatici,
di sottrarre la zattera agli avversari.
Partimmo un pomeriggio col gratificante sostegno morale dei nostri compagni risalimmo il fiume, presa la zattera, ci appoggiammo sopra i nostri sandali,
ma nella cascata della chiusa la zattera si ribaltò
e un sandalo del mio compagno non si ritrovò più.
La perdita del sandalo di bufalo, venuto dai parenti argentini,
calzare di inestimabile valore, costò al Bocciolo indicibili privazioni
che fecero apprezzare ancor di più la portata dell’eroica impresa.
I complimenti di tutti nella sala della casa bombardata,
furono di grande soddisfazione, ricordo ancora le pacche di Silvanino Ronchetta (soprannome derivato da un membro non propriamente rettilineo),
di Luciano, di Luigi che una brillante carriera di centravanti lo portò fino alle vette dell’interregionale facendolo assumere di diritto in Comune in qualità di vigile urbano,
e anche di Vincenzo, il figlio della guardia che ci sequestrava i palloni
coi quali giocavamo sotto il porticato della scuola e che,
sequestrandoli a sua volta al padre, ce li riportava il pomeriggio dopo.
Il pallone aveva ormai preso in pieno i nostri interessi
e ci vedeva ormai professionisti con ruoli ben assegnati
e, anche se al campo l’allenatore si sforzava di darci ruoli diversi,
nessuno di noi si sognava di cambiare la posizione data dal cielo.
Io e Bongo eravamo terzini, Bocciolo portiere, Vincenzo (un altro) mediano
con Bellucci e Roberto Rossi (quello che oggi è il mio medico di famiglia) attaccanti,
altre posizioni non le ricordo.
E’ curioso e me ne accorgo solo ora, il modo di chiamarci,
alcuni di noi, io compreso erano chiamati per soprannome,
altri per nome, altri per cognome e altri ancora per nome e cognome,
sarebbe bello vedere se questo modo di chiamarci
abbia avuto qualche influenza sulla vita di ciascuno.
Le partite più importanti erano giocate contro i paesi vicini
e le organizzava chi, rimandato a Settembre,
andava a ripetizione da un insegnante fuori paese; dunque tutti,
perché una materia a Settembre, a quei tempi, non si rifiutava a nessuno.
Le offese che in campo fanno tanto scalpore oggi, allora erano all’ordine del giorno-
Mi ricordo che una volta fuggii da un attaccante che mi rincorse in giro per il campo
“solo” perché gli avevo detto che la prossima volta portasse una zia,
perché della madre e della sorella negli spogliatoi eravamo stufi.
In quegli anni iniziò il restauro della casa bombardata
e venimmo a sapere che non già una bomba, ma un crollo strutturale
(però durante un bombardamento) l’aveva demolita per metà,
Questo fu per me una delusione tremenda pari solo all’aver saputo,
un decennio dopo, che Lucio Battisti era di destra.
Ancora oggi, passando per la Fonte del Duomo, alla vista della nuova palazzina
che si erge sulle nostre piste non manco di ricordare il tempo e gli amici di allora.
L’unica cosa che mi rincuora e mi dà la certezza della bontà del restauro,
è il fatto che in essa è situata l’ormai storica sede del partito
il cui portone è sovrastato da una insegna luminosa,
che magari cambia un po’ spesso,
ma ha almeno il pregio di essere sempre nuova.